GLI ITALIANI IN VENEZUELA
Gli Italiani in Venezuela
Autore Carlos Gullì (Cosmo de La Fuente)
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esso, citando autore e link all’articolo.
L’impronta degli italiani in Venezuela risale
ai tempi della scoperta di questa regione del mondo, avvenuta il 2 agosto 1498
a seguito del terzo viaggio di Cristoforo Colombo. Il fatto che gli italiani
non ne siano stati i conquistatori ha fatto sì che nascesse tra i due popoli
una sorta di simpatia umana che ha facilitato, altresì, il lascito, da parte
dei nostri conterranei, di un’impronta culturale indelebile. La stessa cosa non
si può dire dei portoghesi o degli spagnoli che, nelle parole dei venezuelani,
nel loro immaginario, talvolta vengono considerati come intrusi. I matrimoni
tra italiani e venezuelani sono perciò molto più diffusi di quelli tra
venezuelani e persone di altre nazionalità.[1]
La
storia moderna del Venezuela comincia con gli italiani, e le pagine di essa
sono ricche di nomi nostrani: Colombo, Vespucci, Codazzi, Castelli e altri
ancora.[2] Già nel
suo nome, Venezuela, c’è un richiamo
all’Italia. Giungendo ad un villaggio indigeno nell’attuale territorio di Maracaibo, costruito su palafitte,
Amerigo Vespucci lo descrisse infatti così: “Siamo appena giunti in un posto
sulla costa di questa terra dove la popolazione vive sull’acqua come nella
nostra Venezia”.[3] L’immagine
di una “Venezia in miniatura” si diffonde in Europa fino a trovare
un’assegnazione grafica nella carta geografica redatta da Juan de La Costa,[4] in cui,
per la prima volta, si legge la parola Veneçuela
ovvero ‘piccola Venezia’ in castigliano del tempo. Presto il nome comprese
tutto l’odierno territorio nazionale e non solo la laguna di Maracaibo. Già
durante il periodo della colonizzazione del Venezuela gli italiani svilupparono
diverse attività; vi erano infatti orefici, commercianti, cuochi, medici,
provenienti da Genova, da Milano e persino membri dell’aristocrazia siciliana
del 1700.
Le
pagine più importanti della storia venezuelana sono ricche di gesta che il
nostro paese ha offerto agli eroi Simon Bolivar e Francisco de Miranda, e non
furono pochi i nostri conterranei che parteciparono alla guerra d’indipendenza
dalla Spagna. Anche il piemontese Francesco Isnardi partecipò all’atto di
indipendenza e alla proclamazione della Repubblica, avvenuta il 5 luglio del
1811.[5]
Quando
per la prima volta cadde la Repubblica, molti italiani furono processati e
pagarono con la propria vita il loro atto. Una nota di merito anche per
Agostino Codazzi, in Italia non molto conosciuto, che ha realizzato opere come l’Atlas físico y político
de la República e il
compendio geografico Resumen de la geografía de Venezuela y Mapa general de Venezuela.[6]
Consultando
il registro degli immigrati che si trova presso il “club italo-venezuelano”[7] di Caracas
si apprende che gli italiani di prima generazione nati in Venezuela si
chiamavano soprattutto Rasetti, Tagliaferro, Adriani.[8]
Essi hanno contribuito, con i loro interventi nel Parlamento e nella stampa, a
modificare la politica d’immigrazione contrastando, ad inizio secolo,
l’inspiegabile tendenza a preferire l’immigrazione proveniente dalle Antille,
dall’Asia e dall’Africa. Furono proprio le proposte parlamentari di Adriani a
favorire l’immigrazione italiana negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale.
Un’ondata che si andava ad aggiungere a quella, più leggera, del XIX secolo
quando i nostri immigrati provenivano soprattutto dalla Toscana (Livorno e
Isola d’Elba). Tra
gli italiani che si sono distinti in Venezuela nel secolo scorso, non possiamo
non citare Pompeo D’Ambrosio, nato in provincia di Caserta nel 1917,
trasferitosi a Caracas nel 1951 come dipendente del Banco Latino divenuto poi il responsabile del Deportivo Italia, squadra di calcio della colonia italiana negli
anni Sessanta e Settanta.
A
seguito dei flussi migratori dall’Italia è interessante notare come alcuni
italianismi si siano inseriti nella lingua del Venezuela[9], come ad esempio la testa; piano a piano; école cua[10] da
‘eccoli qua’ come alternativa spiritosa a exacto.
Secondo
le statistiche ufficiali rilevate da Susan Berglund e Humberto Hernandez
Calimàn, il numero degli stranieri giunti in Venezuela nel 1948 fu di 71.168
individui fino a raggiungere la cifra di 150.361 nel 1957. La percentuale
corrispondente agli italiani fu del 27,5% nel 1948, del 35,5% nel 1951, del
34,3% nel 1955, del 16,2% nel 1958 e del 18,3% nel 1961.
Secondo
quanto emerge da uno studio di Giovanna Gianturco[11] è difficile addentrarsi nella
vita quotidiana dei giovani italiani all’estero; risulta essere un lavoro
complesso perché gli eredi dell’emigrazione italiana, apparentemente, non hanno
nulla in comune con i loro precursori del secolo scorso a tal punto che
risulterebbe evidente una vera e propria rottura con il passato. La totale
differenza tra il loro linguaggio e quello dei loro nonni è anche frutto della
maturazione del linguaggio di mezzo, quello dei loro genitori. È interessante
analizzare, comunque, il significato che i giovanissimi danno alla loro
discendenza italiana, le spiegazioni che espongono e le preoccupazioni che
sentono nell’essere catalogati come ‘italiani’. L’identità di questi ragazzi,
come di quelli nati in altri paesi che sono stati meta dell’emigrazione
italiana, possiede una doppia matrice: una derivante dal volere della famiglia
di origine e l’altra dettata da scelte personali (cosa che già noi, di seconda
generazione, abbiamo conosciuto, sebbene, nel nostro caso, si poteva parlare di
reale imposizione da parte dei nostri genitori). Le diverse ricerche effettuate
mostrano l’identità collettiva dei giovani italiani all’estero, rituali
quotidiani di carattere relazionale che racchiudono le molecole
dell’appartenenza e del riconoscimento. Tra la prima e la seconda generazione
esisteva una sorta di incontro-scontro dovuto, come abbiamo detto, a un
atteggiamento impositivo da parte dei genitori, tra la terza e la prima emerge
un sentimento di ritrovata comunicazione e di scambio culturale. Per me e per
gli italiani della mia generazione imparare e parlare l’italiano era un
obbligo, per i nostri figli è una libera scelta che ha permesso al loro
linguaggio di raggiungere degli ottimi livelli di fluidità. I giovani di oggi
si sentono depositari di un patrimonio culturale che in Italia un po’ si sta
perdendo ma che, dal punto di vista delle tradizioni, all’estero è ancora molto
importante.
Questa
breve divagazione linguistico-antropologica è per sottolineare che, tra le
manifestazioni del desiderio di appartenere alla nostra cultura, da parte degli
italiani di terza generazione, è rilevante quella di volere fortemente imparare
bene la lingua italiana, caratteristica
che dovrebbe dar vita a un idioma di ottimo livello se confrontato all’“itagnolo”
dei nonni o alla lingua stereotipata dei loro genitori e della mia generazione.
Noi, che apparteniamo alla seconda generazione, un po’ snobbavamo il linguaggio
popolare dei nostri genitori e non ne apprezzavamo il valore; i ragazzi di
terza generazione, invece, hanno riscoperto il piacere di appartenere alla
cultura italiana e, in previsione di trasferirsi un giorno in Italia,
frequentano corsi di lingua italiana ad alto livello. Come si vedrà dalle interviste,
però, non è sempre così soddisfacente l’italiano parlato dagli emigrati nati
negli anni Novanta, e questo si spiega facilmente con il fatto che queste
persone utilizzano regolarmente, nel quotidiano e nelle occasioni formali, la
lingua spagnola.
L’aver
letto una parte dello studio di Giovanna Gianturco mi ha convinto ad
intervistare non solo rappresentanti della terza generazione ma, soprattutto, della
seconda in modo da tentare di evidenziare le differenze tra la prima, la
seconda e la terza generazione di italiani in Venezuela. Si pensa che l’italiano
parlato dalla prima generazione di italiani emigrati in Venezuela, nonostante
l’uso di molti vocaboli spagnoli, resta legato al dialetto di origine; la
seconda generazione, invece, ha studiato la lingua nelle scuole private
italiane e parla in maniera più scolastica rispetto ai ragazzi di terza
generazione che hanno studiato l’italiano per propria scelta e hanno avuto la
possibilità di viaggiare e, quindi, di confrontarsi con la lingua parlata in
Italia; il linguaggio di questi ultimi, in certi casi, è fluido malgrado il
comprensibile uso di termini spagnoli che vengono italianizzati.
L’italiano
parlato dagli emigrati è quello che si ascolta in luoghi di aggregazione come i
vari clubs italo-venezuelani anche a carattere regionale, come il “Club
Calabro Venezolano” e il “Club Campania en Venezuela”, nel tentativo di imitare
il più importante club Italo Venezolano.[12]
Nel secondo dopoguerra il
Venezuela rappresenta una delle grandi novità dell’emigrazione italiana verso i
paesi extraeuropei.[13]
Negli anni Cinquanta, infatti, mentre si sviluppa l’emigrazione di massa in
Australia, quella in Canada supera quella verso gli Stati Uniti e il
trasferimento in Venezuela sopravanza quello diretto in Argentina. Innestandosi
sulla precedente immigrazione dell’epoca pre-petrolifera, oltre 200.000
italiani, recandosi in Venezuela dal 1946 e il 1960, danno un contributo
decisivo all’industrializzazione del paese e più in generale alla sua
modernizzazione, incardinata su un vasto processo di urbanizzazione.
Proveniente per lo più dal Sud e dalla Sicilia, la comunità italiana degli anni
Cinquanta, seconda per dimensioni solo a quella spagnola, svolge un ruolo
fondamentale nella piccola e media industria e ancor più nella crescente
industria delle costruzioni a Caracas e nelle principali aree urbane. Il
paesaggio metropolitano e la rete infrastrutturale del Venezuela contemporaneo
non sarebbero quello che sono (nel bene e nel male) senza il contributo
decisivo dell’immigrazione italiana e il concorso della grande impresa (basti
pensare agli interventi della Fiat e dell’Innocenti per il centro siderurgico
di Puerto Ordaz). In grandi opere,
dal ponte Urdaneta, sul lago di
Maracaibo, progettato dall’ingegnere Riccardo Morandi, alla bellissima
metropolitana della capitale, si è materializzato fino agli anni più recenti il
contributo italiano.
L’immigrazione italiana ha
rivelato uno straordinario dinamismo nell’attivare nuove imprese in settori non
convenzionali e nell’aprire nuove frontiere culturali, scientifiche e
artistiche nel contesto dell’universo euro-americano.
Va sottolineato che questa
presenza non si è limitata a Caracas e al Nord metropolitano del paese, ma si è
irradiata anche alle città della “nuova frontiera” venezuelana come Maracaibo,
Ciudad Guayana, Acarigua, ecc., fino a raggiungere il territorio delle miniere
del “Venezuela profondo”.
Non va dimenticato, infine,
che questa emigrazione di massa, dinamica e trasformatrice, è passata
attraverso una durissima e dolorosa selezione sociale, documentata
dall’altissimo numero di rimpatri.
[1] P. Cunill
Grau, La presenza italiana in
Venezuela, Torino, Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli, 1996, p. 1.
[2] G. Arciniegas,
Il mare d’oro, Milano, 1996, p. 19.
[3] A. Vespucci,
Lettera di Amerigo Vespucci sulle isole
nuovamente trovate in quattro suoi viaggi, in P. Collo – P. L. Crovetto
[4] La carta fu redatta a seguito della spedizione
del 1499 sotto la guida di Alonso de Ojeda. La prima carta fu disegnata nel
1500, chiamata “el primer Mapa Mundi”, per opera di Juan de la Costa; cfr. P. Cunill Grau, op. cit., p. 18.
[5] M. Vannini, Entre la historia y la
epopeya: los italianos en la forja de la nación Venezolana, in A. Filippi,
Italia y los Italianos en la
historia y en la cultura de Venezuela, Caracas, 1994, p. 170.
[6] Agostino Codazzi,
militare, viaggiatore e scienziato, nato a Lugo di Romagna nel 1793 e morto in
Colombia nel 1859, divenne il geografo e cartografo ufficiale del Venezuela in
fase nascente, quando il paese aveva bisogno di conoscere il proprio
territorio. Pur operando fra grandi tensioni politiche, conflitti armati e
difficoltà economiche, il lavoro di Codazzi fu di importanza fondamentale pure
per l’Europa. Insignito anche del ruolo di botanico, zoologo ed etnografo, le
sue mappe particolareggiatissime furono studiate soprattutto in Francia. Nel
1840-41 pubblicò un atlante fisico e politico e un compendio geografico del
Venezuela (Resumen de la geografia de Venezuela, Mapa general de Venezuela e
Atlas fisico y politico de la Republica) che fu apprezzato da grandi
scienziati come Alessandro Humboldt.
[7] Club italo-venezuelano di
Prados del Este a Caracas.
[8] L’origine del cognome Tagliaferro ha un ceppo nel vicentino, uno nel goriziano, uno in
provincia di Roma e in Campania; Adriani
ha vari ceppi: uno a Schio nel vicentino, uno a Firenze e uno nell'Isola
d'Elba, uno nel perugino, a Foligno e Città di Castello, uno in Abruzzo, a
Casalincontrada, nel teatino, a Giulianova e a L'Aquila, uno nel reatino, a
Roma, il più consistente di tutti, e a Bitonto nel barese; Rasetti ha un ceppo a Perugia, uno a Firenze ma anche in Piemonte
e Lombardia; fonte: L’Italia dei cognomi (www.cognomiitaliani.org).
[9] Cfr. www.venciclopedia.com
e il Diccionario la chuleta
Venezolana, consultabile on-line al sito http://www.lachuleta.net.
[11] Giovanna Gianturco è professore associato
presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione di Caracas e dal 2001 ricercatrice
presso il Dipartimento di Sociologia e Comunicazione.
[12] Il club
Italo Venezolano ha sede a Caracas, è sicuramente il più prestigioso,
malgrado associarsi abbia un costo piuttosto elevato. Per ovviare al problema
delle quote associative troppo costose, da molti anni vi sono associazioni
dedicate ad alcune regioni italiane, con quote più economiche, ma che non
offrono gli stessi servizi e svaghi del Club
Italo Venezolano.
[13] Cfr. P.
Bevilacqua – A. De Clementi – E. Fanzina, Storia dell’emigrazione italiana, Roma, 2002.