ENZO BETTIZA
Secondo il presidente del Senato di Bucarest, Mircea Geoana, gli italiani sarebbero affetti da una vera e propria «romenofobia», cioè da xenofobia e razzismo ormai a senso unico: tutto diretto contro gli immigrati provenienti, con passaporto comunitario europeo, dal più popoloso dei Paesi balcanici. L’obiezione ci sembra alquanto stonata, al limite offensiva, dopo le equilibrate e anche severe dichiarazioni congiunte fatte l’altroieri dal ministro degli Esteri Franco Frattini e dal suo omologo romeno Cristian Diaconescu. Il fatto che l’altroieri i due ministri abbiano deciso di affrontare pubblicamente insieme, a Roma, uno a fianco dell’altro, la più perniciosa piaga immigratoria di cui da un paio d’anni soffre l’Italia, dimostra per se stesso che né i governanti italiani né tanto meno quelli romeni possono più ignorare un problema divenuto ossessivo e, per tanti aspetti, spaventoso: lo stillicidio ininterrotto di crimini con stupro e ferocia spesso mortale perpetrati da cittadini romeni, crimini che, dopo lo scempio della signora Reggiani, sono purtroppo continuati senza esclusione di colpi e di scelta: coppie di fidanzati inermi, ragazze quattordicenni, ottuagenarie disabili. Inutile nascondersi dietro un dito o alzarlo per accusare di xenofobia indiscriminata l’ospite, ovvero la società italiana e le sue istituzioni, che semmai dovrebbero venire rimproverate di eccessiva tolleranza legale e umanitaria. Basta un paragone. La Francia, che pure ha avuto il vantaggio di ospitare per decenni emeriti intellettuali e scienziati romeni nei suoi laboratori, nelle grandi università, nei migliori teatri parigini, nelle più prestigiose case editrici.Ebbene, questa Francia, che ha saputo vivere per lunghi decenni in simbiosi linguistica e culturale con Ionesco, Mircea Eliade, Émile Cioran, non ha esitato a espellere soltanto nel 2008 oltre 7000 indesiderabili romeni. Nel corso dello stesso anno l’Italia ne ha espulsi circa 40, a titolo più che altro simbolico, perché macchiatisi di atti illegali visibili e spesso recidivi.Quale xenofobia dunque? Chi scrive ha sempre cercato di nominare rispettosamente nei suoi articoli il romeno con la «o» e mai con la «u» inserita da tanti colleghi con sprezzo più o meno consapevole nella parola «rumeno». Ero io stesso un esule dell’Est adriatico, e ne sapevo qualcosa degli scafisti d’arrembaggio che nel primo dopoguerra traghettavano a prezzo salato, a prezzo di fuga, ebrei sopravvissuti e profughi detti «giuliani» verso le coste povere e non sempre accoglienti di un’Italia in ginocchio dopo la sconfitta. Tuttavia, pur consci di essere gettati dalla malasorte allo sbaraglio, si cercava di comprendere che anche la miseria e l’angoscia degli ospiti peninsulari, compatrioti simili e dissimili da noi, erano in quegli anni per tanti aspetti vicine alle nostre miserie e alle nostre angosce: cercavamo di non offendere, non pretendere l’impossibile, non soppesare e commisurare col bilancino le diversità nella disgrazia, cercando d’amalgamarci e adattarci con discrezione e lavori umili al poco che la seconda patria poteva allora offrirci. Si dirà, altri tempi. Altri, risponderò, peggiori, durissimi per l’ospite e per l’ospitato, nei quali l’incertezza del domani avrebbe potuto fomentare facili istinti di scontro e di rapina e di violenza astratta. Il che, a memoria mia, non accadde quasi mai. Al contrario d’allora, oggi l’immigrato corretto, non solo comunitario, può trovare in Italia protezione sindacale, assistenza sanitaria, contratti di lavoro, tredicesime pagate, in un ambiente che nonostante la crisi è tuttora ricco e, nell’insieme, solidale per legge e per animo rispetto alla sua nullatenenza originaria. Quello che riesce più difficile da capire è come i fuochi fatui di un benessere non solo materiale, ma rotocalcato dalle televisioni, dalla densità animata e fumosa delle metropoli, hanno potuto scatenare nelle successive ondate migratorie dai Paesi europei ex comunisti (assai più che da quelli islamici) brame e pretese di possesso immediato, totale, di carne e di danaro, che evocano tempi di guerra più che di pace: le donne di Berlino o di Belgrado assaltate dai soldati russi, le terre bruciate dai tedeschi in fuga dalle nazioni occupate, le bravate crudeli e le sevizie inferte dai servizi segreti francesi in Algeria, da ultimo, dopo le foibe, le orrende e infamanti pulizie etniche interjugoslave in Bosnia, in Croazia, in Kosovo. È tutto questo che sembra ritornare e noi sembriamo riscoprire nelle spietate scorribande e nei delitti efferati di una fascia di criminali e spostati balcanici. Certo, come ci dicono, essi rappresentano l’uno per cento su una comunità che conta un milione e che nella sua stragrande maggioranza è composta di persone oneste e operose. Ma quell’uno per cento, censito su un milione, raggiunge su per giù la cifra non indifferente di diecimila individui, prossima a quella rinviata drasticamente da Sarkozy al loro Paese. Si tratta quasi sempre di individui instabili, ubiqui, spesso clandestini, dediti allo spaccio di donne e di droga, fuggiti dalla Romania per malefatte impunite, giunti dal profondo del postcomunismo ceauceschiano, taluni già espulsi più volte dall’Italia e poi ritornati indenni in Italia attirati e rassicurati dall’incertezza della pena con cui sovente li condonano tribunali indulgenti. Sono le minoranze aggressive che purtroppo, talora ingiustamente, nella nostra epoca di nuove invasioni, danno il tono e il timbro alle maggioranze pulite di cui parlano la stessa lingua. Non a caso da noi si trova il 40 per cento di romeni ricercati con mandato internazionale. Non a caso ci sono 1773 romeni in attesa di processo e 953 condannati in via definitiva. Sono i restanti 990 mila, la più grossa compagine straniera in Italia, che ne subiscono controvoglia la pressione immorale e la coloritura etnica. È la minoranza corrotta a dare corpo alla «questione romena» ormai divenuta questione di Stato e perfino di Chiesa sia a Roma che a Bucarest. I prelati delle comunità romene ortodosse in Italia invocano «comprensione e fratellanza» per i correligionari perbene, paventando anch’essi il rischio di contraccolpi xenofobi, mentre la Chiesa cattolica di Romania tramite una lettera del vescovo di Bucarest Ian Robu al cardinale Bagnasco, in cui non si grida al razzismo, chiede scusa all’Italia per i «suoi» criminali e con chiarezza dice che «tutto il male fatto da loro ci mortifica e ci riempie di sdegno».Come si vede, c’è anche nelle autorità morali di Bucarest un filo razionale che discerne l’orrore e, se vogliamo, distingue l’impotenza paralizzata della società italiana dalla supposta «romenofobia». Sarebbe augurabile che anche quelli che accusano l’Italia di razzismo vedessero un intensissimo film italiano, Cover Boy di Carmine Amoroso, in cui si racconta il sodalizio disperato di due precari solitari e disperati: un giovane romeno e un meno giovane italiano, che appassionatamente quanto vanamente cercano di soccorrersi fino al sacrificio suicida dell’italiano: non il dissidio di razza ma il vincolo nel dolore condiviso lega, fino al gesto estremo del poverissimo «ospite», un’amicizia priva di speranza e di futuro. Un omaggio dolente a due candidi sventurati dell’Ovest e dell’Est.Quanto ai governi delle due parti, essi certo aspetteranno con comprensibile interesse la prossima prova del nove legittimante l’identità europea della cospicua comunità romena che sarà la prima a votare, in massa, per i candidati italiani al Parlamento di Strasburgo. Alemanno, il sindaco di Roma, la città più orrendamente martoriata dalle recenti nerissime cronache, ha inviato ai residenti romeni nella capitale il modulo di iscrizione alle liste elettorali aggiunte. Sarà la prima volta che gli immigrati dalla Romania verranno pienamente equiparati ai votanti italiani nell’esercizio dei loro doveri e diritti di cittadini dell’Unione Europea. Sarà, più che un orpello emblematico, un patto di rinnovata convivenza nell’ambito di una stessa nazione e nella cornice di uno stesso continente.
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